Il poeta albero

Si è atttraversato, si sta ancora traversando, un ampio e sentito dibattito sulla presenza della poesia nel web. Dibattendo, spesso si è andati o.t., come si dice in gergo internettiano, fuori tema, allargando la visuale al più ampio tema della diffusione della poesia contemporanea, in sinergia fra rete, cartaceo, festivals e rassegne, riviste, radiofonia, lavoro sul territorio, rinnovamento della didattica della poesia nelle scuole, ecc.

 

Evidentemente se l’esigenza è così sentita, di o.t. non si trattava, ma di un necessario sguardo agli orizzonti comunicativi entro i quali il fare poesia può evitare di insaccarsi in esercizi di sterile autocontemplazione.

Un dibattito necessario, e con sicure ricadute. Alcune delle quali visibili: la discussione si sta orientando sulla realizzazione di progetti comuni ambiziosi, tipo un portale web, di cui qui non entro in merito, per scarsa competenza tecnica, ma soprattutto ritenendo giusto, come già diversi sostengono, che una discussione operativa non debba disperdersi nei rivoli dei blog esistenti. Altre ricadute, invece, non visibili ad occhio nudo. Ma sono sicuro che ci sono, e tante. Scambiandosi idee il primo impatto sicuramente è sul senso e sull’articolazione dei progetti personali. Ovvero sono convinto che molti, da questo frangente, trarranno più d’un motivo per concepire il proprio lavoro come hortus responsabile, e non conclusus, dentro il collettivo paesaggio che coltiva quel bene primario che è la poesia (quella fatta a fini di bellezza, ovviamente, non di stima autodiretta); molti altri, mi auguro, trarranno spunti per inaugurare progetti nuovi, e di respiro, nel proprio “piccolo” circondario, da far crescere con pazienza. E magari anche con la sagacia di chi sa cogliere il lato economico del fatto di tenere coltivato un certo appezzamento di territorio poetico.

Ho preso finalmente in mano un paio di libri che da tempo avevo adocchiato: di Giuliano Scabia, Il poeta albero (1995) e il più recente (2003) Opera della notte, entrambi usciti per i “Coralli” dell’Einaudi (strano non per la “Bianca”…), entrambi con incisioni dell’autore. Sono raccolte poetiche di uno scrittore che mi sta particolarmente a cuore, in quanto Scabia, drammaturgo “di nascita”, è stato uno degli iniziatori, negli anni Sessanta, della grande stagione dell’animazione teatrale. Da Il poeta albero posto qui di seguio il Prologo (si noti la vecchia impronta del teatrante: “prologo, non “introduzione”, “premessa” o altro), perché lo trovo un particolare augurio comunitario di buon lavoro, da uno che di lavoro artistico comunitario è stato un maestro (per un profilo essenziale, e bibliograficamente ricco, di Scabia rinvio a Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Giuliano_Scabia):

 

Camminando si sentono i piedi della poesia, uno, due, tre / uno, due, due, tre, quattro / uno, uno, due, tre, quattro – ballando si sentono ancora meglio. Quando il camminante incontra altri camminanti (nei sentieri dentro i boschi, dentro le città o dentro il corpo) li ascolta nel suono dei piedi – per sentire la poesia. Solo dal suono dei piedi si riconosce la poesia.

I poeti camminanti vanno in giro per ascoltare il suono dei piedi – o stanno fermi come alberi. Camminano anche perché vogliosi di suonare i piedi della poesia. Ci sono poeti camminanti che vanno in giro cercando non farsi vedere per meglio sentire.

Le bestie camminanti sentono subito i poeti camminanti – come ad esempio una volta Orfeo. Le bestie camminanti non sono il pubblico della poesia – ma la poesia.

I piedi della poesia in origine erano bestie, piante, insetti, rumori del cielo e della terra. Poi nomi. Gli occhi, attraverso cui l’amore dice la poesia, servono per guardare gli alberi e le bestie che formano l’anima. Le bestie dell’anima sono la poesia.

Nel bosco dell’anima gli animali (che sono parti dell’anima) cantano da soli o insieme, si fanno festa o si rattristano. Quello è il paesaggio della poesia – è da lui che la poesia viene su. La poesia che viene da fuori fa da nutrimento al bosco dell’ anima e alle sue bestie.

Prima di tutto viene l’accorgersi – e stare a disposizione del linguaggio aspettando che le signorine Muse si mettano a ballare e facciano sentire i piedi – proprio come i calciatori e l’arbitro alla folla, o i cavalli delle corse, o il pin pun pan pon dei concerti notturni – che quando però così tanti decibel assordiscono le Muse e le spaventano.

Lei (la poesia) è il bambino che vede per la prima volta e cerca di scolpire nel suono l’immagine delle cose che sente e vede disegnandole con la voce. Questa è la sua magia. È la poesia. Le parole così neonate sono animali sonori che lui mette in vita. Coi nomi così soffiati lui anima il mondo.

Stando fermi, invece, si è alberi e si sente il battere della terra – sia il rumore dei passi camminanti sia i terremoti o bombe o motociclette o i piedi della signora morte. Poi c’è il vento che fa suonare i rami e le fo­glie, vengono gli insetti e gli uccelli mentre l’albero cresce. Anche l’albero è un poeta camminante, in senso verticale.

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